Esclusa l’aggravante del mezzo di pubblicità
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42783/2024, ha affrontato un caso di diffamazione avvenuto su WhatsApp, escludendo l’aggravante del mezzo di pubblicità. La decisione rappresenta un’importante evoluzione giurisprudenziale sull’applicazione del diritto penale ai moderni mezzi di comunicazione digitale.

ll fatto: una chat WhatsApp al centro del caso di diffamazione
Un utente di WhatsApp è stato accusato di diffamazione per aver inviato un messaggio offensivo in una chat composta da 158 membri. Il contenuto del messaggio ironizzava sull’accostamento tra un militare, destinatario di un encomio, e una persona omonima associata a immagini in abiti succinti.
In primo grado e in appello, il fatto è stato ritenuto lesivo della reputazione e procedibile d’ufficio, data l’asserita configurazione dell’aggravante del mezzo di pubblicità, dovuta al numero elevato di destinatari del messaggio. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione, sostenendo che le caratteristiche tecniche della chat WhatsApp non permettono di configurare l’aggravante.
Il principio di diritto espresso dalla Cassazione
La Corte di Cassazione ha escluso l’applicabilità dell’aggravante del mezzo di pubblicità, sottolineando che WhatsApp, per sua natura tecnica, mantiene un livello di riservatezza incompatibile con la diffusione pubblica richiesta per integrare tale circostanza aggravante.
Perché la chat WhatsApp non integra il mezzo di pubblicità?
“La comunicazione in una chat WhatsApp, anche con un numero elevato di membri, avviene in un contesto riservato, con destinatari identificati e previamente accettati. Questo limita la diffusione del messaggio e lo esclude dalla nozione di pubblicità.”
In altre parole, non è sufficiente che un messaggio venga trasmesso a più persone per configurare l’aggravante; è necessario che il mezzo utilizzato consenta una diffusione potenzialmente illimitata, come avviene con un post su Facebook o altre piattaforme pubbliche.
Gli articoli di legge rilevanti
Art. 595 c.p. (Diffamazione)
- Prevede il reato di diffamazione per chi offende la reputazione di una persona comunicando con più persone.
- Pena base: reclusione fino a un anno o multa fino a 1.032 euro.
- Aggravante del mezzo di pubblicità (comma 3): reclusione da sei mesi a tre anni o multa non inferiore a 516 euro.
Art. 131-bis c.p. (Particolare tenuità del fatto)
- Consente di escludere la punibilità per fatti caratterizzati da minima offensività e grado di lesività.
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Perché Facebook integra l’aggravante del mezzo di pubblicità?
La Cassazione ha ribadito che i post pubblicati su social network come Facebook sono accessibili a un pubblico indeterminato o comunque molto ampio, rendendo possibile una diffusione incontrollata. Pertanto, questi strumenti configurano l’aggravante.
Perché WhatsApp non configura l’aggravante?
Al contrario, WhatsApp, anche se consente la partecipazione di molti utenti, è tecnicamente un mezzo riservato, poiché i messaggi sono visibili solo ai membri di una chat specifica, previamente accettati. La Suprema Corte ha stabilito che questa limitazione esclude la pubblicità, impedendo di qualificare la comunicazione come pubblica.
Considerazioni finali Avvocato Penalista Alessandro Salonia
Questa sentenza chiarisce un aspetto cruciale per l’interpretazione dei reati di diffamazione nell’era digitale, distinguendo tra mezzi pubblici e privati.
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